Lo verrò a scoprire soltanto a fine giornata, ma questo è il primo giro che io e Nici facciamo insieme nel 2022. Lo specifico così sapete come mai non riusciamo ad essere regolari nelle nostre pubblicazioni: non riusciamo mai a incastrare i calendari! Dopo aver valutato attentamente il meteo, scegliamo di avventurarci lungo la via direttissima che da Sant’Agnese porta alla Baite das Mangis, ispirati dalla relazione di Antonio Armellini nel suo libro “Black Tracks”, una piccola Bibbia per noi amanti del ravano. Il percorso onora la memoria di un sentiero ormai dismesso a causa di una frana causata dal sisma del 1976, e si avventura, a grandi linee, nei boschi che costeggiano ad est il Ventaglio, parete estetica guardiana di Sella Sant’Agnese a Gemona. Proseguendo lungo pendenti versanti di faggio, risale il versante nord del Monte Cjampon fino ad arrivare alla Baite das Mangis, la cugina minore dello Stavolo Scriç.

Il Ventaglio visto da Sella Sant'Agnese. Sulla sua sinistra, la lingua di bosco che abbiamo percorso per arrivare al versante nord del Cjampon

Partiamo come sempre da casa di Nici, nostro accesso prediletto ai boschi di Ospedaletto. Arrivati a Sant’Agnese, riempiamo le borracce con un po’ di acqua fresca e poi ci incamminiamo verso il Ventaglio. Seguiamo le indicazioni per la falesia, ma invece di fermarci a limare i polpastrelli sulla roccia, continuiamo a salire senza tregua. I sassi, che prima lasciavano intravedere un solco-guida, ora sono disordinati e indisciplinati, scivolano da sotto i piedi e non sembrano avere tutta questa intenzione di darci un solido supporto. Ci sentiamo come quelli che in città sbagliano il verso delle scale mobili, ma siamo ancora freschi e non ci facciamo spaventare dalla fatica. 

La salita lungo il ghiaione
Sella Sant'Agnese vista dall'alto

Una volta giunti al cospetto di una parete rocciosa che verticalmente ci dice “altolà”, ci indirizziamo a sinistra nella fascia alta del bosco che parte da Sant’Agnese. Proviamo a seguire delle tracce, ma siamo consapevoli che a lasciarle sono stati i nostri amici camosci, quindi non ci fidiamo troppo e cerchiamo i passaggi più logici per avanzare tra gli arbusti. Il terreno è pendente e scivoloso, ma ci arrangiamo senza eccessivi problemi. Il difficile rimane sempre mantenere la bussola per non allungare il traverso. Troviamo, lungo la prima dorsale rocciosa che interrompe il bosco, un cavetto metallico che anche Armellini aveva annotato. La cosa ci dà conforto e proseguiamo, sempre senza tracce visibili, la nostra esplorazione inclinata. Perdiamo il conto degli squat monopodalici che ci tocca fare per sfruttare le rare zolle stabili, le cosce brontolano un po’ e il respiro si accorcia, ma non abbiamo tante alternative. Avanziamo cercando di rimanere in linea con l’uscita sulla grande dorsale finale, cosa che non ci riesce al primo colpo. In un paio di occasioni dobbiamo indietreggiare di qualche metro per imboccare una strada diversa facendoci largo tra rami e sassi che ispirano poca fiducia. Riusciamo infine ad uscire dal bosco, e ci godiamo per qualche minuto il bellissimo panorama che si apre davanti a noi, dall’Amariana al Monte di Ragogna.

Nici al cospetto delle pareti verticali che stiamo aggirando
Dall'Amariana (dx) al Monte di Ragogna (sx)

Il prossimo ostacolo, lo sappiamo già, sarà quello che Armellini descrive come un passaggio “che richiede concentrazione perché molto esposto”. Si tratta di una frana che in realtà troviamo in condizioni decenti, sicuramente impegnativa e pendente ma non impossibile. Riusciamo, con una buona dose di calma e sangue freddo, a superarla con pochi ma calibrati movimenti. Non è però finita, anzi! Entriamo a tutti gli effetti nel versante nord del Cjampon, che si presenta come un bosco inclinato senza alcuna traccia. Solitamente in queste circostanze è sufficiente deglutire un po’ di dislivello senza masticarlo troppo, chiedendo alle gambe uno sforzo in più. Nel nostro caso però, alla difficoltà di orientamento si aggiunge anche la scivolosità del terreno, che non ci permette di avanzare con leggerezza. Dobbiamo infatti studiare con cura gli appoggi dei quattro arti, trasformandoci in scimmie se troviamo alberi, e in camosci se mancano appigli. Questo tratto in salita ci sfianca, ma siamo anche consapevoli che se abbiamo fatto bene i conti usciremo più in alto rispetto a quanto indicato nella relazione di Black Tracks, quindi avremo meno strada da fare per arrivare alla Baite das Mangis. Così è, difatti. Il fiatone ci fa da colonna sonora, ma arriviamo sorridenti alla croce del punto panoramico vicino all’agognato edificio. Pausa meritata, con acqua, mela e barrette. Poche centinaia di metri nella faggeta ci separano dallo splendido Stavolo Scriç, che omaggiamo con una seconda pausa per goderci lo spettacolo dei primi colori autunnali, che cambiano il vestito al bosco.

Vi sembra normale dover arrampicare sulle rocce perché il terreno è troppo scivoloso?
Nici supera la frana
La croce a pochi passi dalla Baite das Mangis
Il bosco cambia abito
Finalmente, la Baite das Mangis

Rifocillati e dissetati, riprendiamo il cammino lungo quel CAI 713 che una volta abbracciava anche la Baite das Mangis, prima della frana del 1976. Ci godiamo la discesa fino in Ledis, ma è dall’omonima forcella ai Rivoli Bianchi che diamo il meglio di noi: 12 minuti di corsa sui ghiaioni! Le gambe ormai sono da rottamare, ma il cerchio va chiuso. Risaliamo fino a Sella Sant’Agnese e ci diamo la mazzata finale con un’ultima corsa lungo i sentierini che portano a Ospedaletto. Ritornati in civiltà ci premiamo con un bel toast, che addentiamo felici dopo aver passato una giornata immersi non solo nel nostro habitat naturale, ma anche in quell’atmosfera speciale che solo l’esplorazione fuori sentiero è capace di creare.

Preparazione prima della discesa di Ledis
Non siamo belli ma ravaniamo
Distanza Dislivello Tempi
15,77km
1433 m
7h 00m

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