Ultimi tornanti, ultime rampe e la macchina si ferma sul lato destro della strada: Mauro e io siamo arrivati a Plan dai Spadovai per una nuova avventura dopo quasi un anno. La tenda viene montata in maniera meccanica mentre le luci del tramonto illuminano le cesellate pareti ovest del Montasio e delle sue torri. 

Mille i discorsi davanti al rodato piatto di riso allo zafferano, ci sono così tante cose su cui dobbiamo aggiornarci. Come sempre è quasi mezzanotte quando spegnamo le frontali, elettrizzati per questo progetto rimandato da troppi anni: la Via di Dogna allo Jôf di Montasio! 

Notte a Plan dei Spadovai

La sveglia suona intorno alle 5 e mentre Mauro prepara la colazione, io smonto la tenda. Quando ogni cosa è pronta saliamo in macchina per spostarci al cippo colonnello L. Zacchi dove inizia la strada forestale che porta alla via. 

Accendiamo le torce, ci battiamo il pugno e partiamo! 

La prima parte trascorre serena, con una leggera brezza che aiuta le facce assonnate a svegliarsi del tutto. Superato un torrente Dogna colmo di acqua, entriamo nella tranquillità dei faggi, dove tra un discorso e l’altro manchiamo il segnale di inizio del sentiero. Nonostante sia più che evidente la scritta rossa! Per fortuna ci accorgiamo subito dell’errore e ripercorrendo i nostri passi imbocchiamo il sentiero che sale deciso nella faggeta. Il bosco è ancora molto scuro e i bollini si notano con una certa difficoltà, più che sui segni facciamo affidamento ai piedi e alle tracce di calpestio sul terreno, abilità necessaria per questi percorsi poco battuti.

Piano piano la luce inizia a colorare le cime circostanti ma verremo baciati dal suo calore solamente fra molte ore, quando raggiungeremo la meta. Più saliamo più gli alberi si fanno radi, compaiono i mughi e in non molto tempo ci troviamo davanti le prime pareti, i piedi rocciosi della Torre Alba. A sinistra si apre la Val Rotta, ambiente solitario e selvaggio come buona parte di quelli che ci troveremo ad attraversare. 

Superato il letto di un torrente con solo qualche rivolo d’acqua, non prima di aver sbirciato all’interno per cercare la presenza di qualche plecottero, iniziamo a percorrere il lungo traverso che cammina sospeso sopra il monumentale orrido della Clapadorie.

La prima indicazione
Val Rotta

L’ambiente è selvaggio ma il percorso evidente: continuare a traversare verso S-SE con un leggero saliscendi che fa prendere poco dislivello.

La caratteristica più memorabile di questo tratto sono le infinite ragnatele che i laboriosi aracnidi tessono tra i ciuffi di mughi e che prendiamo regolarmente in faccia. Dopo l’ennesimo ragno che ci ritroviamo addosso decidiamo di usare i bastoncini per aprirci la strada. Il quadro è piuttosto buffo, con me e Mauro che ci alterniamo in testa muovendo lo strumento come se fossimo dei rabdomanti in cerca di acqua tra le rocce calcaree e dolomitiche. 

Via via che si avanza la texture vegetale lascia sempre più spazio alla roccia e si susseguono facili passaggi di I/II grado. La guida che abbiamo con noi (Le Alpi Giulie – Itinerari, letteratura, fotografia) ammonisce riguardo ad una piccola cengia esposta e rotta, chiamata Pas Cjatif. Come al solito il mio animo è un po’ irrequieto per quello che ci aspetta e il respiro si fa più veloce, salvo poi rendersi conto che sì il passaggio è bello esposto, ma sorprendentemente facile, e il cavetto presente dà una certa sicurezza sebbene non sia necessario usarlo. 

A livello di attrezzature è molto peggio la parte seguente dove, risalendo dei canalini di II grado, sembra che i cavi possano staccarsi semplicemente guardandoli in cagnesco. Per fortuna la roccia è piuttosto solida e guadagnamo metri di dislivello senza difficoltà.

 Siamo ormai ai piedi della roccaforte del Montasio, due esseri umani dispersi in un regno di roccia. In lontananza le pareti settentrionali del Zabus e del Cimone sono un orizzonte verticale che pare impossibile scavalcare. Ma da quei versanti sale ben più di una via alpinistica o ravanosa, e parlottando facciamo mente locale alle relazioni lette in passato. Che quelle montagne ospiteranno una delle prossime giupettate? Me lo auguro di cuore. 

Risalendo le ultime banconate rocciose miste a terreno ghiaioso giungiamo al bivacco Muschi, di cui ahimè non abbiamo fatto foto. Più che un bivacco è un piccolo anfratto nella roccia, protetto da un instabile muretto di sassi. Contro ogni previsione troviamo però delle coperte e dei materassini di gommapiuma, un lusso considerato il luogo in cui ci troviamo. 

Il Pas Cjatif
Alla fine del traverso
Zabus e Cimone in lontananza

Al bivacco Muschi iniziano le vere difficoltà di questa via. Siamo sotto la famosa Rampa: una sequenza di gradonate rocciose via via più ripide che costeggiano la monumentale parete gialla, sogno per alpinisti di tutt’altro livello e tempra. 

Attacchiamo i 400m di dislivello verticale dopo una pausa ristoratrice e dopo aver dedicato buoni 10 minuti a contemplare la bellezza dell’ambiente circostante. Mi sento fortunato per avere la possibilità di essere qui, con un caro amico tra le mie care montagne, in uno dei paesaggi più sublimi che abbia mai visto. 

Indossato caschetto e, nel dubbio, imbrago e cordini, attacchiamo la Rampa con un canalino di III grado situato proprio sopra il bivacco. Nella scelta ci viene in aiuto la relazione dei ragazzi di Landre Dai Salvadis, da cui prendiamo spesso spunto per le nostre uscite. 

La roccia è sempre ottima e permette libero sfogo alla fantasia. Il grado è II continuo al quale si affianca qualche passaggio di III/+. Proseguiamo senza pause prendendo percorsi diversi. Mauro si mette alla prova cercando linee più difficili, io, che ho già il culo bello stretto per l’esposizione sottostante, cerco quelle più logiche. Ci ritroviamo solamente nelle parti terminali dove un traversino molto aereo richiede tutta la nostra concentrazione. Siamo pur sempre slegati e un errore sarebbe imperdonabile! 

Dopo un’ora circa raggiungiamo il Belvedere, una piccola sella orizzontale alla fine della Rampa, stanchi, felici e consapevoli che la meta è ancora lontana. Nonostante questo ce la prendiamo comoda, godendoci l’euforia per la scalata appena affrontata. Il pulpito di arrivo è un trionfo, se già alla base sembrava di essere in un altro mondo, ora sembra di essere in un altro universo.

La rampa all'inizio
Sulla rampa
Un pezzo della parete gialla
La rampa a metà
Sulla rampa
In uscita dalla rampa
Belvedere

La via non è ancora finita. Dal Belvedere bisogna continuare a salire tra canalini, paretine e cenge (max II grado) fino a prendere la via Amalia che conduce al bivacco Suringar. Anche in questo tratto non vi è un percorso obbligato ma bisogna saper scegliere e alcune volte siamo costretti a fermarci per cercare il passaggio migliore. 

Quando ormai siamo prossimi a collegarci con l’Amalia, iniziamo a scorgere i veri assenti della parte sottostante: gli stambecchi. Per molte persone sono poco più che capre, con uno sguardo innocente e tontolone, ma personalmente ogni incontro con loro è un’emozione. Guardare le madri insegnare ai cuccioli come affrontare le verticalità è qualcosa che mi smuove nel profondo, come anche la solennità dei maschi con le lunghe corna. Sentinelle silenziose delle cenge, scrutatori degli abissi, giocolieri della verticalità. 

Raggiunta la via Amalia, accelleriamo il passo felici di mettere finalmente i piedi su un sentiero orizzontale e in pochi minuti svoltiamo nei pressi del bivacco Suringar, abbarbicato sulla Grande Cengia del Montasio. 

Dal bivacco procediamo lesti sull’ultimo tratto di salita: la vecchia via normale ovvero il Canalone Findenegg. Entrambi abbiamo familiarità con questo percorso per cui risaliamo velocemente e senza difficoltà le ultime centinaia di metri che ci separano dalla cresta sommitale. La mente torna al lontano 2010, quando percorsi per la prima volta questo itinerario. Al tempo la montagna era solo una piacevole alternativa alle serate di festa, ma nel profondo sono sicuro che quell’invito da parte di Ambro (e suo padre Marino) a salire sul Re delle Giulie abbia lasciato semi di una passione che sarebbe germogliata solo molti anni dopo. 

All’uscita dal canalone la luce della mattina inoltrata ci abbaglia. Dopo ore in penombra è quasi fastidioso e il caldo di agosto si fa sentire nonostante la quota. Percorriamo la sempre divertente cresta aerea che porta alla cima, che fortunatamente troviamo poco affollata: solamente una coppia di tedeschi e poche altre persone a condividere la vetta. 

Permettiamo alle nostre menti di rilassarsi e i quasi 2000m di dislivello positivo si fanno sentire sulle gambe, la tensione della salita scompare permettendo allo stomaco di farci notare che è proprio ora di nutrirsi decentemente. Riprendiamo quindi il cammino in direzione della scala Pipan, nel mentre la cresta sommitale viene avvolta da fredde nuvole che creano magnifici giochi di ombre con un branco di stambecchi maschi.

L’ultima gioia della giornata ci viene regalata dai ghiaioni sotto forca Disteis, che ritengo essere il ghiaione più bello da correre tra tutti quelli che ho incontrato in vita mia. Non bisogna neanche correre davvero, basta balzare con ghiaia e gravità a fare il resto. 

In men che non si dica siamo finalmente al rifugio Di Brazzà, dove una giovane nuova gestione ci vizia con degli spatzle fantastici e una birra dissetante. Stanchi e felici copriamo le ultime centinaia di metri che ci separano dalla macchina, terminando così l’avventura. 

Stambecca con capretto
Sulla Grande Cengia
Nebbiosi stambecchi maschi vicini alla cima

Anche questo scritto, come tutti i nostri racconti, va preso proprio come racconto e non relazione. Oltre al nostro punto di vista, questa volta anche la memoria potrebbe giocare qualche scherzo essendo passato oltre un anno dalla salita alla scrittura dell’articolo. Nonostante tutto, i ricordi di questa salita sono ben vividi nella mia mente. Perchè un viaggio del genere, ripercorrendo la via dei visionari G. e P. Di Brazzà, A. e D. Pecile, F. Marcon, P. Pittini e A. Siega che salirono nel lontano 4 settembre 1882, è difficile da dimenticare. Per gli amanti del selvatico andare (per citare il buon G. Madinelli) la Via di Dogna è un itinerario imperdibile. Lungo, faticoso, mai troppo difficile o pericoloso che permette di raggiungere lo Jôf di Montasio dalla sua parete più estetica. 

PS: se devo trovare una nota negativa a questo nostro percorso è il fatto che abbiamo optato per lasciare una macchina sui Piani del Montasio e spostarci con l’altra in Val Dogna. Opzione divoratrice di tempo e ben poco sostenibile da un punto di vista ecologico. Abbiamo optato per questa scelta per la bellezza della traversata, ma soprattutto perchè la Via Amalia è ufficialmente chiusa. Nonostante questo, poche settimane dopo la nostra uscita, diverse persone sono ridiscese per il Findenegg e tornate a Plan dai Spadovai per la via Amalia. Fate le vostre valutazioni e percorrete l’itinerario che più vi aggrada. 

Distanza Dislivello Tempi
16,09km
1850m circa
9h 26m

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