Fa un po’ strano trovarsi a scrivere un racconto dopo tanto tempo. Ancora di più sapendo che l’inverno aveva appena inizato a bussare alla porta e in una splendida giornata di dicembre avevamo raggiunto la cima del Monte Mangart.
Tante cose sono cambiate in questi mesi. Se da un lato la tremenda pandemia ci ha chiuso in casa per settimane a sognare le amate montagne, dall’altro è stata per me l’occasione di dar vita a numerosi progetti. Questi ultimi, assieme alla “via alpinistica” imboccata da alcuni dei Giupetti che li ha portati a cercare sempre di più il brivido della parete, mi hanno “costretto” a cambiare un po’ la routine e pertanto a scegliere una frequentazione solitaria delle cime.
È un mercoledì, il meteo è clemente, anzi sembra promettere proprio sole. Reduce da una cima mancata causa neve in Val Pesarina (ahimè la prima volta in quella valle carnica è stata un po’ amara), sono poco disposto a rinunciare per cui devo scegliere attentamente la mia meta. Sfogliando alcune guide l’occhio mi cade inizialmente sulle Dolomiti friulane, poi, da buon pigro che non vuole fare 2 ore di macchina, opto per…. le Giulie, ovviamente.
Alle 8.00 circa, dopo aver risalito la Val Raccolana e aver superato Sella Nevea, parcheggio la macchina sulla strada forestale che conduce a Malga Grantagar e da lì fino al Rifugio Corsi: oggi si va sul gruppo dello Jof Fuart!
Memore di un’estenuante salita alla malga con la neve e le ciaspole, resto piacevolemente sorpreso quando sbuco fuori dal bosco in meno di 40 minuti. Riprendendo fiato mi perdo a guardare con il binocolo verso forcella Lavinal dell’Orso, speranzoso di scorgere qualche stambecco.
Dopo un breve scambio di parole con due escursionisti, un passo dopo l’altro, immerso in questo ambiente alpino che sembra uscito dalla descrizione di un libro scolastico, guadagno metri di dislivello fino alla bellissima cengia che conduce al rifugio Corsi.
Una cosa mi sorprende: c’è tanta acqua!! Chi frequenta le Giulie sa quanto rara sia da trovare, sopratutto in quota. Uno dei motivi per cui queste severe cime orientali sono famose è la loro composizione calcarea che trionfa nelle forme e nei paesaggi del Monte Canin. Ma sulle Giulie non c’è solo calcare, si trova in abbondanza anche un’altra roccia, forse ancora più famosa: la dolomia. Questa, a differenza delle rocce composte dal carbonato di calcio, non viene sciolta dall’acqua e per cui non risulta avara di bersi tutta la pioggia, per poi restituirla solo a valle.
Perdendomi tra un pensiero e l’altro sono già arrivato al rifugio Corsi, dove come comitato di accoglienza mi attende un bel branco di stambecchi con qualche capretto al seguito. Ci fissiamo un po’, poi alcuni di loro si fanno beffe della mia andatura bipede e in due falcate hanno già arpionato la roccia alcuni metri sopra di me. “Vorrei proprio essere un becco” penso.
I nomi di queste cime sono a mio parere, tra i più belli della regione: Ago e Campanile di Villacco, Jof Fuart, Alta Madre dei Camosci, Innominata, Rondini, Vergini. Nomi che danno un’anima romantica a queste che altro non sarebbero che masse rocciose destinate a sgretolarsi. Nomi che si intrecciano a quelli dei loro cantori, Kugy in primis che proprio qui, su questo gruppo ha visto il percorso degli Dei (la cengia degli Dei).
Nel frattempo arrivo alla forcella del Vallone, mi fermo e dò un’altra letta al percorso in modo da non sbagliare. Mangiato qualcosina, riparto e seguendo i bolli rossi arrivo subito a quello che mi sembra essere l’evidente canale di cui parla la guida. Mi guardo un po’ in giro per cercare altri bolli o segni per proseguire ma non ne vedo, inoltre ci sono anche tre vecchi chiodi alla base del canale per cui lo imbocco.
I primi tre metri sono sufficienti a farmi intuire non essere nel posto giusto, a maggior ragione in discesa, dove mi convinco definitivamente non essere il II° grado previsto. “Meno male che ho letto la guida” penso tra me e me.
Tornato con i piedi per terra, scorgo nella nebbia quello che sembra essere un omino mezzo distrutto. Osservando meglio, sembra esserci anche la traccia che conduce verso di lui lungo una cengia. La percorro e in un attimo inizio a scorgere diversi altri ometti a segnare la via.
Si inizia!
La salita è veramente un piacere. Superato un breve passaggio un po’ più tecnico ed esposto (cordini presenti) su una cengia, il sentiero mi ha ricordato moltissimo il canalone Findenegg al Montasio: passaggi di I°/+ ma mai esposti e roccia buona.
Tra un canaletto e una rampetta in poco tempo sono in vetta. Da solo. Dopo tanto tempo.
Le nuvole non mi permettono un panorama a 360° ma mi accontento, è la prima volta che raggiungo una cima del gruppo dello Jof Fuart. Resto incantato a fissare le pareti delle Vergini mentre mi fumo una sigaretta.
Rimesso tutto nello zaino, devo solo firmare il libro di vetta. Apro la tipica scatola metallica e strabuzzo gli occhi quando leggo in prima pagina: 26/06/2002. Tutto sommato questa cima non è così frequentata.
La discesa è rapidissima, in un attimo sono nuovamente in forcella. Manca l’ultimo sfizio giocoso della giornata: scendere correndo i ghiaioni. Mi lancio a capofitto rischiando più di qualche caduta, complice anche la neve che ancora stenta ad andarsene in questa estate così bizzarra.
Raggiunto nuovamente il Corsi, mi distendo tra gli stambecchi a pranzare. Due di loro incuriositi, si avvicinano ma mai dando troppa confidenza.
Per il rientro opto per cambiare itinerario. Dal rifugio imbocco il sentiero attrezzato “Re di Sassonia” che con qualche divertente passaggio roccioso tra mughi e piccoli torrenti mi conduce nuovamente alla malga Grantagar. Il sentiero, per quanto i cavi siano quasi sempre inutili, offre un’ottima palestra a chi vuole approcciarsi alle ferrate e nonostante non presenti difficoltà, risulta essere la ciliegina sulla torta di questa mia solitaria avventura in Alpi Giulie.
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