Siamo a maggio inoltrato e piove ancora. Questo non scoraggia di certo Mauro, che nonostante le previsioni avverse, ha voglia di portarmi a fare un giro sulla neve. Io fino ad una settimana fa ero a Parigi, dove per 7 mesi la massima attività fisica è consistita nel correre in stazione per non perdere la metro.
Grazie ad un confronto con alcuni amici la sera prima, l’idea di andare sul Montasio viene accantonata. Puntiamo quindi ai Due Pizzi, in Val Dogna. Dopo un caffé con Nici, che si dirigerà a Trieste per una formazione speleologica, ci mettiamo in rotta verso nord, ascoltando del buon hip-hop undergound italiano.
Una volta entrati in Val Dogna, però, ci troviamo di fronte ad un cartello che annuncia la chiusura della strada dopo qualche km a causa di una frana. Decidiamo di proseguire. Arriviamo davanti alle transenne, e scendiamo dalla macchina per guardare da vicino un tabellone informativo. Siamo finiti davanti al sentiero 647 che porta al Cuel Tarond (1740m). Abbiamo un problema, ma abbiamo anche la soluzione. Prepariamo gli zaini, stringiamo gli scarponi, e i il suono dei bastoncini comincia a fare da metronomo lungo il sentiero.
Il percorso è molto ben curato, la segnaletica è evidente. I passi si susseguono con un buon ritmo, e mi rendo subito conto che pian piano sto tornando in forma. Mi sembra che siano gli scarponi a far scivolare il terreno sotto di me con la loro spinta, e per un attimo perdo anche la cognizione dello spazio. Non so da dove sono partito, non so dove devo arrivare: il sentiero è il mio divenire.
Mi piace andare in montagna perché si può parlare di tutto. Non ci sono orecchie indiscrete per certe confidenze, e non vigono le regole del politically correct che dobbiamo rispettare laggiù, in mezzo alla gente. L’unico filtro è il fiatone: se una cosa non è poi così importante, sarà messa da parte per quando ci sarà meno bisogno di ossigeno. Continuo quindi a chiacchierare con Mauro e progrediamo nel bosco senza affaticarci eccessivamente.
Dopo circa 40 minuti arriviamo ad un rudere di guerra. Continuo a non capacitarmi di come abbiano fatto quelle persone a portare in montagna tutto il necessario per costruire dei piccoli edifici. Lo sforzo dev’essere stato enorme e l’atmosfera intrisa di paura. Mi sento fortunato a poter salire questi pendii per scelta e non per obbligo. Dopo pochi passi incontriamo un bivio. Controlliamo la cartina e prendiamo la strada di destra, che ci conduce alla seconda parte del sentiero, contraddistinta da una pendenza leggermente più ripida.
Non tardiamo molto ad arrivare alla forcella arrotondata (Cuel Tarond appunto), e realizziamo che comincia a fare freschetto. Abbiamo abbandonato il bosco e gli alberi non ci riparano più. Ormai da metà sentiero, inoltre, c’è una lieve pioggerellina che, mischiandosi al nostro sudore, acuisce la percezione del vento. Incontriamo di nuovo un bivio: a sinistra il monte Sechieiz (1839m), a destra il Cuel dei Pez (1943m). Nonostante Mauro avesse ovviamente individuato una linea per salire quest’ultimo, la ragionevolezza ci ha spinti a dirigerci verso sinistra per vedere come il sentiero si sarebbe sviluppato. Senza ramponi e senza picozze, tenendo conto della mia inesperienza sulla neve, il Cuel dei Pez è costretto a rimanere un eventuale progetto per il futuro.
Camminiamo qualche centinaio di metri, ma il sentiero sembra perdere quota. Mauro controlla la Tabacco e conferma che seguendo questo percorso allungheremmo il giro senza aver toccato neanche una cima. Poi si guarda in giro, ed esclama: “dai, andiamo su per qua”. Ormai lo conosco, so che il suo istinto difficilmente si sbaglia. So però anche che piove, fa freddo, siamo bagnati, e stiamo per avventurarci tra i mughi e la roccia friabile. Non è però la prima volta che succede, sono appena rientrato nella mia terra e decido che è bene riprendere le buone abitudini da ravanatore. Questo non mi impedisce ovviamente di insultare un po’ il mio compagno di avventure.
Dopo aver individuato il punto migliore per attaccare la salita, Mauro parte con il suo passo da vero giupet. Lo perdo di vista prima ancora di aver capito dove sono le sue tracce per poterle riempire con i miei scarponi. La salita non è scontata: spesso gli appigli rocciosi si staccano e la ghiaia sotto i piedi è in vena di giocare allo scivolo. Anche Mauro però mi conosce. Sa bene che le ingiurie che gli rivolgo hanno il più delle volte un sorriso sullo sfondo, e il suo silenzio viene rotto soltanto da piccole risate o da un perentorio “dai, moviti”. Arriviamo in cima al nostro picco innominato, scherziamo un po’ sul fatto che abbiamo aperto una nuova via e facciamo qualche foto, non senza battere i denti.
Di fronte a noi, nonostante le nuvole, abbiamo il Montasio e lo Jôf Fuart, che con maestosità ci mostrano il loro versante nord, mentre a sinistra vediamo il Cuel dei Pez. Il panorama è dipinto in modo alquanto bizzarro. Dalla tavolozza cadono il bianco e il grigio, che amalgamandosi danno colore a rocce, neve e nuvole. Ci sono poi dei verdi e dei marroni, che fanno emergere gli aghi e i rami dei mughi. Tutto molto bello, ma ormai la pioggia è diventata neve, e sui miei occhiali ci sono le sagome dei suoi fiocchi. Decidiamo quindi di scendere.
Non è un percorso facile. Certo, ci si può fidare degli arbusti perché quelli, a differenza della roccia di poco prima, non si staccano da terra, ma sotto il manto di neve non si sa mai quanto spazio ci sia. La colonna sonora varia quindi da discussioni generiche a esclamazioni poco eleganti, passando per qualche risata quando uno dei due vede l’altro sparire nel bianco o sbracciare per rimanere in equilibrio. Tutto sommato, la pendenza è minima, e gestiamo questo tratto in totale sicurezza. Ci fermiamo addirittura per una piccola pausa, approfittando di un riparo bellico che ci permette di mangiare una mela e bere un sorso d’acqua.
Una volta riagganciati al sentiero principale, lo ripercorriamo fedelmente. Questa è forse la parte più bella dell’escursione di oggi. Io e Mauro cominciamo a prendere velocità e lasciamo andare le gambe. Ormai le discese correndo sono una nostra specialità, ed entrambi sappiamo quanto il concetto di libertà sia probabilmente la definizione meno edulcorata di questo muoversi in montagna. Tornante dopo tornante, ci rendiamo conto del passaggio climatico da neve, a pioggia, a nebbia. La sensazione di freddo è ormai passata, e posso concentrarmi pienamente sulla pianificazione dei miei passi, che devono sposarsi al meglio con la forma del terreno. Un po’ come se stessi giocando a Tetris, cerco di incastrare i miei piedi tra i sassi, sulle foglie o sui rami caduti. Questi piccoli ostacoli non ci impediscono di arrivare in circa 35 minuti alla macchina.
Vedere che io e Mauro ci divertiamo ancora a saltare, correre, arrampicare, ridere, parlare e insultarci, nonostante ormai siano passati diversi anni da quando abbiamo cominciato ad andare in montagna insieme, mi rende felice. La montagna, per noi, è ancora un enorme parco giochi.
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