Se in una notte di cielo terso volgiamo il capo all’insù, orientandoci verso nord, possiamo ammirare la costellazione del Grande Carro. Aguzzando un po’ la vista, ci accorgiamo che una delle sette stelle luminose ha una piccola timida compagna al suo fianco. È la pallida Alcor che si nasconde dietro Mizar, come un bambino quando incontra per la prima volta altri adulti e si aggrappa alla gamba del genitore.
Anche le Prealpi Carniche hanno questa configurazione: se il Monte Cuar si rende ben visibile dalla pianura friulana, il Monte Flagjel, suo fratellino occidentale, non è conosciuto da molti. Lo stesso vale per il mio caro Monte Piciat: la sua Alcor è il Monte Piombada. È proprio qui che Nici ed io siamo andati alla ricerca di una nuova avventura.
In queste ultime settimane ho sentito che stavo cominciando a pagare il conto di tutte quelle piccole pressioni quotidiane che mi sono imposto. Ho gestito alcuni progetti che mi hanno reso molto felice, ma mi hanno anche costretto a trascurarmi un po’. La situazione Covid-19 non è delle più rosee, e prima che vengano annunciate ulteriori restrizioni, decido di concedermi un paio di giorni di ferie per riprendere in mano il timone della mia barca. L’idea che mi frullava in testa era quella di andare a esplorare qualcosa di immacolato, dove poter finalmente improvvisare senza nessun vincolo, per sentirmi libero di assecondare il mio istinto. Ci metto davvero poco a ripescare dalla mia lista dei desideri il Monte Piombada, cima così poco frequentata che ad oggi non ha sentieri CAI ufficiali che ne offrono l’accesso. Nici è d’accordo sulla destinazione, ma provo ad alzare l’asticella: voglio arrivare in cresta dal canale detritico ad ovest. Nici prova a farmi ragionare, ma alla fine riesco a farlo cedere, guadagnando la sua compagnia in questo esperimento in pieno stile giupet.
Sono le 9:15 circa quando cominciamo a camminare. La macchina ci aspetterà all’inizio del Rio Rugoni, qualche km più a nord di S. Francesco, in Val d’Arzino. I primi passi sono cauti, vista l’irregolarità del terreno, ma dopo pochi minuti sento che sto riprendendo confidenza con il mio corpo, recentemente maltrattato con lunghe sedute di immobilità davanti al pc. L’ambiente è affascinante ma ostico. Davanti a noi soltanto sassi, pendii inospitali e qualche arbusto, guardiano dei rigagnoli che in modo impacciato provano ad alimentare un greto ben al di fuori della loro portata. Non nascondo che qualche dubbio ce l’ho, su questo percorso. La via che porta alla cresta sud è nascosta da un piccolo promontorio senza nome, quindi è difficile capire quali saranno le prossime sfide. Cerco di pensare che, come tutti i problemi, anche questa salita ignota andrà spezzettata in piccole fasi, addirittura in singoli passi, che la renderanno gestibile. Alternando la guida con Nici, superiamo le prime pendenze su ghiaia ed entriamo nella parte più stimolante della salita.
Sbuchiamo su un piccolo pianoro che ci permette di studiare i prossimi passaggi. L’analisi del terreno ormai ci riesce bene. Sappiamo leggere le pendenze, valutare la tenuta della roccia e riusciamo a tratteggiare a parole le linee di risalita. Cercheremo di tenerci il più possibile a sinistra affiancando la parete franata per poi imbucarci nel canale che ci porterà in cresta. Probabilmente dovremo arrampicare un po’ ma la cosa non ci spaventa, anzi: più possiamo muoverci in modo trasversale e meglio è! Continuiamo quindi su facili placchette e cenge non troppo strette, stando attenti a dove mettiamo i piedi ma godendoci nel contempo la varietà motoria di questo nuovo tracciato.
Sento che le tensioni si stanno allentando, che sono vincolato soltanto dalla natura che mi circonda, ed è proprio questa la libertà che cerco. Volevo mettermi alla prova e ho trovato pane per i miei denti. La vera sfida, in questo caso, non è arrivare in cima, ma arrivarci affrontando l’ignoto e adattandosi a quello che incontriamo davanti a noi. Che bella prova di plasticità, sono davvero felice!
Per rendere il tutto ancora più sorprendente, ad un certo punto della risalita finiamo tra le pagine di un manuale di geologia. Davanti a noi c’è una faglia. Questo significa che stiamo vedendo, come durante un’operazione a cuore aperto, due strati di roccia che si scontrano e scorrono uno di fianco all’altro. Non solo il colore dei due strati è diverso, ma nel punto di contatto la pressione è così alta che rende la roccia liscia. Mentre Nici in preda all’entusiasmo mi spiega tutto ciò, provo ad astrarre il mio punto di vista. Sto vedendo, in scala minuscola, quello che è successo quando si sono formate le montagne che guardo tornando a casa dal lavoro. Ma andando ancora più indietro nel tempo, ho di fronte a me degli antichissimi strati di sedimenti sottomarini che si sono compattati e che movimenti tettonici hanno portato a scontrarsi tra loro, liberando quantità enormi di energia. Se a scuola mi avessero portato qui a studiare le rocce, di certo mi ricorderei qualcosa in più.
Lasciata alle spalle questa parentesi didattica, continuiamo la risalita del canalone. Gli ostacoli ormai sono finiti, e sento che sto cominciando a pregustare il piccolo successo di questa prima tappa. Sorrido e accelero il passo. Mangio a grandi bocconi le ultime porzioni di roccia e appena arrivo sulla dorsale di cresta mi stendo a terra ed esulto. Giro la testa a destra e vedo Nici procedere deciso sul tappeto grigio di sassi e ghiaia. Giro la testa a sinistra e vedo una moquette di foglie che spaziano dall’arancione zucca al bordeaux sommaco. Guardo infine in alto e sorridendo al cielo azzurro ascolto il mio fiatone. La risalita da ovest è fattibile!
Un sorso d’acqua, due biscotti, e si riparte. Abbiamo ancora un po’ di strada prima di raggiungere la cima e non è il momento di riposarsi. Cominciamo a destreggiarci tra arbusti e roccette, ma dopo poco l’ambiente si sgombra e ci troviamo su una vera e propria cresta. Il pensiero va subito al Monte Plauris, e quando lo dico a Nici mi risponde con un classico “stavo giusto pensando la stessa cosa”. La pendenza è accentuata per il primo tratto, ma una volta scavallato il pianoro ci troviamo di fronte alla cima, che pian piano sta diventando sempre più accessibile. Sulla nostra destra il Monte Piciat, sulla nostra sinistra il Monte Corona Alta, con una bellissima dorsale di collegamento con il Monte Piombada. E sopra di noi? Bè sopra di noi cominciano a volare i grifoni. Chiedo a Nici, che ha scritto la sua tesi triennale proprio sui grifoni presso la Riserva Naturale del Lago di Cornino, se i rapaci ci stanno puntando. “Sicuramente ci hanno visti, adesso ci tengono sott’occhio mentre prendono la termica”. La cosa comincia a farsi un po’ preoccupante, non capita ogni giorno di avere 4-5 avvoltoi sopra la testa che pregustano il pranzo, e capire che si è il pranzo. Faccio finta di niente, o almeno ci provo, e proseguo.
Il giallo ocra dei prati si mescola ai verdi e ai marroni, interrotti a tratti dal grigio chiaro quasi bianco delle rocce che spuntano tra la vegetazione. Non ci sono passaggi complicati o esposti, la linea di risalita è ormai evidente e progrediamo con ritmo costante. Davanti a noi, però, c’è l’ultimo bivio prima del traguardo. Sulla sinistra alcune rocce irregolari intervallate da erba, sulla destra un canale pratoso che sembra abbastanza inclinato. Cerchiamo di valutare bene le due opzioni e alla fine decidiamo che la via più sicura è quella vegetale. Dopo un leggero traverso, Nici entra nel canale e mi dice che in realtà è meno insidioso del previsto. Lo seguo a ruota ed effettivamente la pendenza è gestibile. Un’ulteriore conferma che se guardati da vicino, i problemi apparentemente grandi sono spesso facilmente digeribili. Superato il canale, possiamo finalmente lasciar correre le gambe fino alla cima. Non appena lo sguardo scavalla la cresta e si tuffa in Carnia, non riesco a trattenere lo stupore. La visuale a nord è limpidissima, si vede davvero tutto, dal Veneto alla Slovenia, dall’Austria all’Adriatico.
Come su ogni cima, parte la carrellata dei nomi dei monti. Nici è ormai imbattibile, ma pian piano anche io comincio a difendermi bene. Imparare la geografia di un territorio guardandolo dall’alto è un vantaggio che non tutti hanno. Proprio per questo mi piacciono le montagne, perché mi danno la possibilità di avere una visione d’insieme, di capire le relazioni tra gli elementi che compongono il panorama in cui, appena tornato alla macchina, sarò di nuovo immerso. Ci godiamo quindi un buon panino con vista e sorseggiamo un po’ di té caldo. Tra una chiacchiera e l’altra decidiamo che siamo soddisfatti della nostra salita, e rinunciamo all’esplorazione sul Corona Alta alla ricerca di una linea di discesa.
Ci incamminiamo verso nord prendendo la traccia che porta a Sella Chianzutan. Dopo ogni ravanata mi sembra un lusso quello di avere una traccia battuta davanti e poter spegnere il cervello. Come da tradizione, discesa = corsetta, quindi facciamo volare i piedi e in poco tempo siamo al bosco che fa da contorno al bar della Sella, purtroppo chiuso. Finiamo il nostro giro sulla strada asfaltata, che sorvolando Pozzis ci riporta alla macchina.
La ciliegina sulla torta? Il sole che, ormai color fuoco, bacia la frana ai cui piedi siamo passati questa mattina. Non so neanche come esprimere la mia gratitudine per questa avventura così colma di soddisfazioni e di bellezza, quindi meglio lasciare spazio a quel silenzio in cui ognuno può ascoltare i propri pensieri senza doverli trasformare in parole.
1 commento
Nici · 6 Maggio 2021 alle 10:42
Grazie Marco! Val d’Arzino e Meduna sono il paradiso per il greppismo. Speriamo di riuscire a esplorare un po’ già quest’estate.